martedì 1 dicembre 2009

Un'immagine, mille parole?



(Dearborn, Michigan: il minareto in Ford Road)

Per chi avesse voglia di (ri)leggere:

mercoledì 11 novembre 2009

Los Alamos - Cuba - Bluff!



(per contrastare l'umida uggia novembrina propongo un pezzullo estivo scritto in una di quelle soleggiatissime giornate d'agosto con temperatura a 100 Fahrenheit e condizionatore a 1000: grazie all'infame clima di Washington, l'umidità è la stessa; 
è però anche la scusa per infilare qualche nostalgico scatto che risusciti per un istante l'azzurro del cielo) 




(New Mexico Plateau)

Sarà il caldo, sarà l'afa mozzafiato, saranno le zanzare aggressive e cattivissime o forse solo i guasti dell'età: comunque sia, al vostro cronista americano l'estate sbalestra neuroni e sinapsi, stimola associazioni improbabili, connessioni azzardate e sbilenche, temerarie associazioni di luoghi, nomi, paesaggi, eventi storici. 
Un esempio di questi stravaganti frullati mentali è lo sgangherato itinerario di viaggio, perfettamente percorribile e assolutamente dissennato, di certo assente da qualsiasi guida turistica degna di rispetto, riassunto nel titolo: Los Alamos – Cuba – Bluff! 
(il punto esclamativo, seppur facoltativo, sta lì a conferire immeritato sapore d'urgenza ed evocare d'emblée scampate catastrofi). 
Un puro divertissement, ma un po' noir.



(Santa Fe, NM)

Los Alamos
Il presupposto è che il turista abbia già visitato le perle del Nuovo Messico: la bella, costosa e trendy Santa Fe, seconda o terza più antica città degli odierni Stati Uniti, e la vicina e più abbordabile Taos, entrambe profondamente impregnate di sapori ispanici e amerindi. Impareggiabile, per esempio, il villaggio di “indiani” Pueblo alle porte di Taos (se solo Cristoforo Colombo non avesse pigliato quell'incredibile granchio geografico pensando d'aver raggiunto le Indie, risulterebbe oggi più facile chiamare gli autoctoni “Nativi Americani”, ma pazienza). 


 
(Taos, NM: Pueblo)

Dopo aver stancato la fotocamera digitale e razziato le gioiellerie sotto gli splendidi portici di Santa Fe, è dunque tempo di dedicarsi a questioni più serie. La bomba atomica, per dirne una.
E Los Alamos è proprio lì a due passi. 
Non che ci sia un granché da vedere, a Los Alamos. Ma il gusto sta tutto in quell'inevitabile frisson che ti coglie quando stai per metter piede nella cittadina che diede i natali ai primi ordigni nucleari. L'operazione venne varata nel '43, fu battezzata “progetto Manhattan” (forse per depistare le spie?), si sviluppò appunto tra le rigogliose foreste di questo angolo di Nuovo Messico, e culminò nell'agosto del '45 con lo sgancio di due bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki. 

A prescindere dalle innegabili conquiste scientifiche nonché dalle più discutibili considerazioni su quanto le bombe in questione abbiano accelerato la resa del Giappone, certo è che da queste parti dimostrano di avere un senso dello humor agghiacciante: Los Alamos – dove si fanno scoperte! è il benvenuto a caratteri cubitali che la città offre  al visitatore. Turisti nipponici astenersi.



(Los Alamos, NM: l'ingresso in città)

Cuba
Il tema nucleare, appena abbordato, con un pizzico di fantasia lo si può ritrovare poco dopo. Basta volerlo, basta cercarlo, basta studiare attentamente la cartina:  passata Los Alamos, c'è una strada che porta a Cuba!
La memoria del turista corre alla Grande Paura (maiuscole giustificate) del lontano autunno 1962, allorquando un aereo-spia americano in volo sopra l'isola di Cuba fotografò installazioni sospette. Certo, occorre ricordare che L'Avana aveva appena sventato un maldestro tentativo d'invasione ad opera di esuli cubani addestrati e finanziati da Washington (ci si può chiedere, col senno di poi: perché sbarcare in una baia chiamata “dei Porci”?) 

E va pure detto che, non appena rimediata la figuraccia, la Casa Bianca aveva rilanciato e moltiplicato i tentativi di levarsi di torno Fidel Castro e i suoi barbudos. Tutto questo per sottolineare che Cuba aveva le sue buone ragioni per correre ai ripari e chiedere aiuto all'alleato sovietico. 
Detto fatto: Mosca fornisce a Fidel un po' di missili a testata nucleare e li punta sul gigante americano, l'aereo-spia ci vola sopra e li fotografa, e l'intero pianeta si ritrova a un passo da Armageddon. 

A proposito di film: la storia dei missili è raccontata in una bella pellicola con Kevin Costner: Thirteen Days, “Tredici giorni” - che sono appunto  quei giorni in cui la Guerra Fredda si fece caldissima, intensissima, quando una mossa sbagliata, un'incomprensione diplomatica, un bluff di troppo, mal fatto o mal decifrato, avrebbero potuto significare la fine del mondo.
E allora come può, il nostro turista sgangherato, resistere alla tentazione offerta dalla sua cartina stradale e negarsi l'obliquo, perverso piacere di viaggiare direttamente da Los Alamos a Cuba? 



(Valles Caldera, NM, lungo la statale 126)

Com'è giusto e appropriato che sia, il tragitto è breve ma non facile, la strada è tortuosa, s'arrampica a fatica su per i monti, attraversa incantevoli paesaggi che alternano l'alpino al Far West, sfila lungo una verdeggiante caldera vulcanica, poi all'improvviso finisce l'asfalto e la statale New Mexico 126  si fa umilissima striscia di ghiaia e terra, chiusa al traffico durante l'inverno e ogniqualvolta uno scroscio violento la trasformi in una trappola di fango. Poi, dopo trenta miglia di buche e scossoni, finalmente la “discesa” su Cuba. 





Le virgolette attorno alla “discesa” s'impongono d'imperio alla comparsa del cartello che annuncia il villaggio, conficcato in una lunga pianura avvolta da monti aguzzi e monti mozzati chiamati mesas: Cuba, altitudine 6'905 piedi, ovvero duemilacento metri. L'altopiano, qui, è roba seria.

Se il nome Cuba sia mutuato dall'omonima isola di Fidel o se invece derivi dal termine spagnolo cuba o cubeta (tino, botte, tinozza) è uno dei pochi quesiti che si propongono all'attenzione del viandante. Come tutti i villaggi dall'aspetto languidamente trascurabile e dalla vitalità latitante, con le insegne e i cartelloni che urlano al vuoto, “Cuba ha una storia lunga e interessante”, come recita infatti il sito web del paese. Sarà, ma non si vede. E va bene così, basta il nome. Delle tante Cuba sparse negli Stati Uniti questa, con la sua irriverente vicinanza alla culla della bomba atomica, è forse la più armata di forza evocatrice.


 
(Cuba, NM: Cuban Cafe)

Bluff
Per taluni sarà il richiamo del poker, quando all'ultima mano ti giochi l'orologio e le brache. Per altri il fascino dei duelli tra massimi sistemi, quando signori eleganti e perbene giocano per qualche giorno con razzi e bombe e il destino dell'umanità. A tutti, indistintamente, una località di nome Bluff non può non suonare irresistibile.

A Bluff ci si arriva, da Cuba, con le ombre lunghe della sera, ché così l'inquadratura è perfetta, dopo aver digerito miglia e miglia di allenamento al vero paesaggio da western, infilando stanchi articolati a diciotto ruote che trasportano non-si-sa-cosa verso non-si-sa-dove (ancor più misterioso è perché transitino di qua). 





Carcasse d'auto passate alla pressa sono l'unico carico decifrabile e assolutamente ragionevole sulla statale 550, che scivola verso nord-ovest tra mesas e pali della luce. 
Breve sosta obbligatoria a Four Corners, “Quattro angoli”, l'unico luogo negli  USA dove i confini di quattro Stati si toccano, e il viandante può per un istante credersi un po' Dio Onnipotente, ubiquo: un piede nel Colorado, l'altro nel Nuovo Messico. mano sinistra in Arizona, mano destra nello Utah. Lo fanno tutti, grandi e piccini.

E poi c'è Bluff, fondata nel 1880 da una spedizione di Mormoni (altra storia affascinanate, quella dei Mormoni!). Proviamo a mescolare storia vera e speculazioni nostre: dopo trecento chilometri di marcia i Mormoni, esausti, decidono di essere arrivati nel posto giusto. Sfiancati dalle tribolazioni del viaggio e a corto di fantasia, si guardano in giro, vedono ovunque mesas, pinnacoli di roccia e rossastri dirupi verticali, e battezzano il loro nuovo insediamento: Bluff, che in inglese significa scogliera, promontorio, falesia (come fondare un villaggio in valle di Muggio e chiamarlo Monte). 



(Bluff, UT: Twin Rocks Cafe)


Bluff sono trecento anime immerse in un panorama mozzafiato e  incomprensibilmente intatto: un elegante motel in legno, un ristorante stile John Wayne, un inquietante caffé ai piedi delle Twin Rocks, i Pinnacoli Gemelli, cui chiedi di non franarti addosso come altri e più noti gemelli protesi al cielo. 



(Bluff, UT)


E a due passi, degnissimo coronamento di questo breve itinerario sghembo, mano tanto ignota quanto ispirata ha lasciato lentamente decomporsi al sole e al vento dell'altopiano un vecchio furgoncino Dodge e un'incantevole Buick del '49 o del '50. Come quelle che ancora oggi vivono e soffrono e sbuffano a Cuba (l'isola, non il villaggio). 
Forse lo sospettavi da tempo: a occhi aperti si sogna meglio.

(Bluff, UT)

(copyright testo e immagini: VASCO DONES; inedito)
    
 

mercoledì 14 ottobre 2009

L'isola Amish


Per i circa duecentomila Amish d’America, il mondo si divide sostanzialmente in due: da un lato ci sono loro, gli Amish; dall’altro vivono “gli inglesi”, cioè quei trecento milioni di cittadini americani – di varie origini, colori e confessioni – ai quali è stato insegnato che le guerre d’indipendenza di due secoli fa erano state combattute (appunto) contro gli inglesi. Ma tant’è: per come la vedono gli Amish, quella brava gente inglese era e inglese resta – anche sotto la bandiera a stelle e strisce. Forse perché gli “inglesi” (cioè gli altri americani, coi quali gli Amish intrattengono peraltro rapporti spassionatamente cordiali) ogni tanto gliene combinano una grossa.  

Per esempio: quando nel marzo del 1979 la centrale nucleare di Three Mile Island arrivò a un soffio dal produrre la Madre di Tutte le Catastrofi (offrendoci un antipasto di quanto sarebbe poi accaduto a Cernobyl), il reattore in agonia minacciò di trascinare nell’inferno radioattivo non solo mezza Pennsylvania, assetata d’energia come tutta l’America, ma anche una comunità che non aveva mai consumato nemmeno un kilowatt di elettricità: gli Amish della contea di Lancaster, che per ironia della sorte vivono a una manciata di chilometri dalla centrale elettronucleare di Three Mile Island ma si rifiutano cocciutamente di agganciarsi alla rete elettrica.

Quegli stessi Amish, pacifici e pacifisti a oltranza, che pochi giorni fa (NdR: era l'autunno 2006), nella minuscola scuola di Nickel Mines, hanno dovuto raccogliere dieci loro figlie – cinque morte ammazzate, cinque gravemente ferite – imbottite di piombo da un lattaio improvvisamente impazzito: un “inglese”, ovviamente, perché per distribuire il latte bisogna saper guidare il furgone, e gli Amish non guidano mezzi meccanici con motore a scoppio (solo carretti trainati da cavalli, e dalle cui ruote sono banditi i pneumatici perché la gomma è un lusso che renderebbe il viaggio troppo confortevole). 

E non imbracciano un fucile, mai. E quando s’infuriano (raro) non chiamano l’avvocato per farti causa (sarebbe un atto di violenza, secondo loro). E se proprio volessero chiamarlo, dovrebbero uscire di casa, montare in calesse (niente auto, l’abbiamo detto) e raggiungere una cabina pubblica, perché hanno messo al bando i telefoni privati. 

E tra di loro conversano in una strana lingua che gli “inglesi” (con la superficialità dei potenti) hanno avventatamente battezzato Pennsylvania Dutch (“olandese della Pennsylvania”), impropria traduzione del termine Deutsch sentito usare dagli Amish – i quali invece più che olandese parlano tedesco, un tedesco che a ogni germanico suonerebbe arabo, ma che un Confederato di Ostermundigen riuscirebbe in parte a decifrare. Sì, gli Amish comunicano tra loro in una sorta di svizzero-tedesco-alsaziano d’altri tempi. Anche perché svizzero (bernese della Simmenthal, per la precisione) era il loro fondatore Jakob Amman.

***

Torniamo dunque in Svizzera per due briciole di storia patria.
Zurigo, Anno Domini 1525: sotto la guida di un certo Felix Manz un pugno di protestanti radicali (oggi li chiameremmo “fondamentalisti”, ma pare che già Martin Lutero li definisse “i fanatici”) si oppongono apertamente a Zwingli: ne contestano la decisione di affidare allo Stato la Riforma della Chiesa, riforma che comunque reputano troppo blanda. E sostengono che la Chiesa ha bisogno di credenti consapevoli: rifiutano quindi il battesimo dei neonati, e si fanno “ribattezzare” da adulti. 

E’ l’inizio del movimento anabattista (dal greco “battezzare di nuovo”). Ma quella di Manz e compari è presto considerata un’eresia e, in accordo coi costumi dell’epoca, i protagonisti della contestazione e i loro seguaci vengono duramente perseguitati (da tutti: cattolici, luterani e calvinisti). Felix Manz sarà affogato nella Limmat, diventando così il primo martire della Chiesa anabattista; altri finiranno bruciati sul rogo, compresi donne, anziani e bambini.

Gli anabattisti – anche detti “la gente semplice” per via del loro stile di vita improntato all’umiltà – si sparpagliano poi per l’Europa, finché un bel giorno trovano il sistema di farla grossa:  prendono il controllo della città di Münster, e lì per più di un anno ne combinano di tutti i colori. Pur predicando non-violenza e rigore morale, si lasciano andare a ogni sorta di nefandezze (stupri inclusi), finché l’esercito lanzichenecco riesce a riconquistare la città. 
La faccenda finisce in un gigantesco bagno di sangue, condito da torture, abiure negate, e gli immancabili roghi. Il movimento anabattista è allo sbando, la sua reputazione distrutta. 
Ritroverà più tardi nuova linfa sotto la guida di un ex sacerdote olandese – Menno Simons – dal quale assumerà il nome di “Chiesa mennonita”. Poi, verso la fine del 1600, lo scisma e la nascita degli Amish per mano del bernese Jakob Amman.

***

Su Jakob Amman la storia dice poco. Nato a Erlenbach, nella Simmental, probabilmente nel 1644, Amman era un mennonita che per praticare il suo credo aveva dovuto rifugiarsi in Alsazia. Si sa comunque che Amman – in barba al dichiarato pacifismo mennonita – era personaggio alquanto litigioso. E anche parecchio intransigente: fu infatti lui a insistere sulla necessità di osservare col massimo rigore la Meidung, cioè la pratica di ostracizzare (dunque evitare, mettere al bando) quei fedeli che il movimento anabattista, per un motivo o per l’altro, aveva scomunicato. 
Ed è proprio su questo punto che si consumò lo scisma mennonita: Amman, esigendo una ferrea applicazione della regola dell’ostracismo nei confronti dei ripudiati, scomunicò tutti i mennoniti che non la pensavano come lui (e da taluni venne a sua volta scomunicato), e finì col dar vita al movimento Amish, costola ultra-fondamentalista della Chiesa anabattista. 

Il clima politico europeo di quel tempo, poco incline alla tolleranza, e gli sconfinati orizzonti che parevano aprirsi al di là dell’Atlantico, fecero poi il resto: gli Amish decisero che valeva la pena tentare la sorte nel Nuovo Mondo. 

I primi sbarcarono a Philadelphia nel 1737, attratti dalla promessa del quacchero William Penn di edificare uno stato tollerante e aperto a ogni credo (la Pennsylvania, appunto). Il risultato è che oggi in Europa degli Amish non c’è più traccia: sono tutti nel Nuovo Mondo, alcuni (pochi) in Centroamerica, la stragrande maggioranza negli Stati Uniti, soprattutto in Ohio, Pennsylvania e Indiana. Dove sono ormai oggetto di grande curiosità e rappresentano – loro malgrado - un’importante attrazione turistica.

***

Nella contea di Holmes (in Ohio), così come nella contea di Lancaster (in Pennsylvania) – dove vivono le due più consistenti comunità Amish del mondo - le fattorie Amish le riconosci a prima vista: sono quelle prive del cavo di allacciamento alla rete elettrica. 
Se hai fortuna vedrai arrivare anche il calesse, con a bordo gli uomini dalla lunga barba e le donne a capo sempre coperto (se proprio non puoi rinunciare all’istantanea-ricordo, meglio scattarla con discrezione e da lontano: gli Amish non apprezzano foto, tivù, registratori e altre diavolerie simili, e di regola non rilasciano interviste). 

Ma non cercare le chiese Amish: non ci sono. Sembra incredibile che una comunità tanto impegnata a vivere secondo i precetti della Bibbia, ventiquattrore su ventiquattro, non abbia edifici di culto, eppure è una scelta coerente con il ripudio di ogni e qualsiasi oggetto, atto o manifestazione che possa apparire “immodesto”: gli Amish celebrano la funzione religiosa della domenica a casa dei membri della comunità, a rotazione. E solo ogni seconda settimana; in compenso la funzione può durare anche tre ore o più. 

Clero non ce n’è, a parte il cosiddetto “vescovo”, una sorta di “primus inter pares” scelto dal caso – mediante estrazione a sorte - tra alcuni nominativi proposti dai membri della congregazione. La vita è fatta di preghiera e di lavoro: possibilmente nei campi, a mano, con l’ausilio del cavallo e dei macchinari più rudimentali. 

A fianco, sull’asfalto della highway, rombano i possenti fuoristrada dell’americano medio, ma gli Amish non ci fanno caso: tutt’al più vendono agli “inglesi” i loro magnifici quilts, trapunte fatte a mano apprezzatissime dai turisti che invadono le contee Amish nell’illusione di trovarvi un paradiso che non c’è, che non è mai esistito, e che comunque nessuno degli “inglesi” vorrebbe abitare, perché nessun “inglese” ha veramente voglia di tornare a tracciare solchi nei campi con un aratro e due buoi. 
Eppure secondo gli Amish l’atteggiamento corretto di fronte alle cose terrene sta tutto racchiuso in una parola (tedesca, ovviamente): Gelassenheit, rozzamente traducibile con “calma, tranquillità”. 

E per i piccoli quesiti della vita quotidiana c’è Die Ordnung (“L’Ordine”), un compendio di regole aggiornato e rivisto ogni due anni che stabilisce che cosa è lecito e che cosa è vietato (per esempio: elettricità dalla rete no, batterie sì; telefono privato no, cabina pubblica sì; telefono cellulare forse, dipende dalle esigenze; viaggio in automobile sì, ma solo nel ruolo di passeggero). 

Una piccola fetta della comunità sfugge all’obbligo della rigorosa osservanza dell’Ordnung: i giovani tra i quattordici anni (fine della scuola media, massimo livello di studi concesso perché scervellarsi troppo fa male) e i diciotto o venti, allorquando dovranno scegliere se farsi battezzare (e dunque aderire ufficialmente alla Chiesa Amish) oppure lasciare la famiglia, la comunità, la tranquilla Gelassenheit dell’isola Amish, e entrare nel mondo degli “inglesi”

In questa sorta di interregno prima della grande scelta, i giovani Amish vivono il cosiddetto “Rumspringa” (alla lettera: “correre in giro”, ma col significato implicito di “folleggiare”), gli anni in cui è lecito (anche per loro) bere, ubriacarsi, guidare l’auto, ballare, tirare tardi, fare quelle cose più o meno divertenti e più o meno trasgressive che eccitano tutti gli adolescenti d’Occidente. 

Alla fine del Rumspringa si sceglie: o dentro o fuori, o Amish o novello “inglese”. E finisce che - per convinzione, per richiamo divino, o per timore dell’aggressivo mondo che sta all’esterno della sicura e protettiva bolla Amish – il novanta per cento dei giovani Amish decide di restare nella comunità. 
Chissà che cosa avrebbero scelto, fra qualche anno, le cinque ragazze appena falciate dal lattaio “inglese”?

Però la vita prosegue, dicono gli Amish. Con Gelassenheit, con calma e tranquillità, non appena possibile. “Forse citeremo l’evento nel prossimo numero del giornale”, ha confidato al Los Angeles Times Elam Lapp, direttore del settimanale Amish Die Botschaft
Si riferiva proprio al massacro nella scuola di Nickel Mines, ora assediata dai reporter di mezzo mondo. Ma è collaudata prassi del suo giornale, ha chiarito Lapp, non pubblicare articoli su omicidi, guerra, sesso o religione.
Tutto un altro mondo.

(© VASCO DONES; pubblicato sul settimanale svizzero AZIONE nell'autunno 2006)



venerdì 9 ottobre 2009

Il Nobel per la pace a Barack Obama


(Ci raccontiamo storie per riuscire a vivere.
"We Tell Ourself Stories in Order to Live" - Joan Didion)

La mattina del 4 novembre 2008 ho accompagnato una signora di colore, Betty Kilby, al seggio elettorale di Cleburne, in Texas. L'ho filmata mentre deponeva la scheda nell'urna: un altro voto per Barack Obama.

Qualche giorno prima, nella sua città natale di Front Royal, in Virginia, Betty mi aveva raccontato la sua vita da ragazzina nera nel Sud, durante gli anni delle lotte per la desegregazione razziale. Una storia a tratti felice (papà aveva sfidato e sconfitto i bianchi della sua città), a tratti drammatica (all'ultimo anno di liceo, Betty era stata stuprata).

La sera di quel 4 novembre l'ho trascorsa con Betty, suo marito David (nerissimo pastore battista) e due loro amici di famiglia, anche loro di colore. 
In principio l'incredulità, lo stupore ai primi risultati, poi la loro gioia e l'improvvisato ballo di Betty all'annuncio della vittoria di Obama mi hanno raccontato una storia magnifica - che a mia volta ho cercato di raccontare alla tivù svizzera. 

( "Da Betty a Barack" / copyright RSI - Radiotelevisione svizzera - richiede RealPlayer)

(Betty Kilby all'entrata del suo vecchio liceo a Front Royal, Virginia)

Il 20 gennaio sono sceso anch'io al mall di Washington per partecipare alla cerimonia d'insediamento del primo presidente americano di colore. C'era un milione e mezzo di persone, forse due, tutte a sfidare il freddo per poter raccontare ai figli o ai nipoti - chissà quando, forse di fianco al caminetto - che quel giorno "c'eravamo anche noi".










 


Ci sembrava una bella storia, una di quelle che ti vuoi portare dentro per i momenti - tanti - in cui ti chiedi dove stia il senso delle tue fatiche, delle tue pene, delle tue rabbie, dei tuoi vuoti. Sai che è un po' favola, un po' illusione, un po' leggera ubriacatura da fatica e disperazione. Sai che nel grande schema delle cose, poco o niente cambierà. Ma vuoi viverla, vuoi ascoltarla quella storia, vuoi partecipare un poco, vuoi fartela ripetere. Dopo si dorme meglio.









 


Adesso alcuni signori tra Oslo e Stoccolma hanno deciso - come i bambini prima della nanna - che vogliono un replay di quella favola, un secondo atto della storia tanto bella. Ecco perché hanno attribuito a Barack Obama il Nobel per la pace. 
A me sta bene, io ci sto. Non voglio che questa storia finisca così presto.




(Washington, DC, 20 gennaio 2009: "Inauguration Day")



mercoledì 7 ottobre 2009

Il minareto di via Ford





Dearborn, città di centomila abitanti alle porte di Detroit, è oggi l'ultimo baluardo di ciò che un tempo fu la grande industria automobilistica americana. Dearborn ospita infatti il quartier generale della Ford, unica delle Tre Grandi (come vengono semplicemente chiamate qui) in grado di reggersi con le proprie forze, senza dover passare da bancarotta e nazionalizzazione forzata (General Motors) o ricorrere all'aiuto di buoni samaritani stranieri (Chrysler).



(Detroit, Michigan: Obama Gas Station)



Quest'ultimo è, tra l'altro, un caso che sta dando non pochi grattacapi agli americani informati, quelli che leggono i giornali, per intenderci: sanno che a salvare la Chrysler sarà l'italiana Fiat (e qui molti sorridono e accennano battutacce sulle ultime Fiat viste in circolazione vent'anni fa, ma in mancanza d'altro, vada pure per gli Italians e le loro buffe vetturette), però poi s'imbattono nei resoconti delle tragicomiche avventure galanti di Berlusconi, e sperano che i Salvatori di Torino siano più seri e meno imbarazzanti del loro leader politico.

Niente di tutto ciò, invece, per il glorioso marchio fondato da Henry Ford, il geniale inventore della Ford Modello T che motorizzò l'America grazie all'odiata catena di montaggio. Henry Ford a Dearborn – appunto – ci era nato, ci aveva insediato parte della sua industria, e ci aveva fatto edificare la sua magione personale.

Certo, la Dearborn di oggi non è quella frenetica e ottimista di settant'anni fa, quando poteva vantare persino un aeroporto all'avanguardia, ovviamente battezzato Ford, il primo al mondo con le piste asfaltate (a quei tempi Ford produceva anche aeroplani).
All'ombra della sede centrale della Ford, Dearborn è oggi un dignitoso sobborgo serenamente impegnato a scivolare – come gran parte dell'America - dal ceto medio al medio-inferiore, ma ben felice di non condividere lo spaventoso degrado della vicina Detroit.




(Detroit, Michigan: Detroit Engineering Institute)



Tutto questo va raccontato per dare a Dearborn ciò che è di Dearborn, e cioè che nonostante la sua limitata celebrità internazionale, questa negletta periferia di Detroit è un vero, colossale pilastro della storia dell'industria USA, una sorta di secolarissima Terrasanta che ha dato luce a una delle massime passioni nazionali, a sua volta fonte di intramontabili miti a stelle e strisce: il viaggio in automobile.
Insomma, per farla breve, Dearborn è tanto americana quanto la torta di mele (come dicono da queste parti).




Negli anni più dorati di questo lembo di Michigan, le (allora) tre grandi case automobilistiche calamitavano a Detroit e dintorni manodopera da ogni angolo d'America. Anzi: da ogni angolo del mondo. E la manodopera accorreva a frotte, da ogni dove. Bianchi e neri dal profondo sud americano, chi per fuggire la povertà endemica di stati arretrati, chi per lasciarsi alle spalle il razzismo e i linciaggi. E poi sbarcò altra gente ancor più strana, da terre ancor più lontane ed esotiche.

E' la solita storia, che conosciamo bene anche in Svizzera: chiami braccia, e invece ti arrivano uomini. E si trascinano appresso i loro bagagli, quelli fisici tenuti assieme dallo spago, e quelli culturali, spirituali, gastronomici perfino. Fu così che, per quegli strani scherzi della Storia, nell'americanissima Dearborn cominciarono a sbarcare arabi, tanti arabi. Prima cristiani maroniti dal Libano e dalla Siria, e poi, con sempre maggior frequenza, arabi musulmani.


Bref
: oggi è di origine araba il trenta percento della popolazione di Dearborn (la più alta negli Stati Uniti). E giacché nell'America religiosissima un luogo sacro non lo si nega a nessuno, e il veneratissimo Primo Emendamento della Costituzione garantisce la piena libertà di culto, ecco nascere già nel lontano 1937 (!) la Yemeni Zaydi Dearborn Mosque, la prima moschea del Michigan e una delle prime dell'intera nazione.
Fin qui, tutto normale.



(Dearborn, Michigan: Islamic Center of America)



Più sorprendente, però, è che la costruzione di una seconda, grande moschea – ufficialmente chiamata
Islamic Center of America - sia stata tranquillamente portata a termine nel 2005. Cioè dopo l'attacco terroristico di Al Qaeda al Pentagono e alle Torri gemelli.
Pare che a Dearborn, per la nuova moschea, nessuno abbia fatto un plissé.



Per chi volesse recarsi in visita, l'indirizzo è già un programma: la troverà al 19500 di Ford Road. Con elegante minareto fiancheggiato da Old Glory, la bandiera nazionale che si contorce al gelido vento del Michigan. Incastrata tra la chiesa apostolica armena (19300 Ford Road) e la chiesa ortodossa di San Clemente (19600 Ford Road).




(© VASCO DONES; 
pubblicato nell'estate 2009 sul settimanale svizzero AZIONE)

lunedì 5 ottobre 2009

Storie dal Muro di Washington


Il Muro di Berlino. Il Muro del pianto. Il Muro della vergogna (ce ne sono tanti: l’ultimo l’hanno tirato su in Israele). La Grande Muraglia cinese… Anche Washington ha il suo muro con la emme maiuscola. E quelle che seguono sono alcune storie dal Muro di Washington.





Dan Bullock era un bambino nero di Goldsboro, nella Carolina del nord. Si dice che fosse un ragazzino tranquillo. A undici anni perse la madre. Papà si risposò e portò Dan e sua sorellina a vivere su al nord, a Brooklyn, New York, al 279 di Lee Avenue. Al giovanissimo Dan la metropoli non piaceva. Tenne duro per un po’, poi un giorno falsificò la data sul suo certificato di nascita e riuscì ad arruolarsi nei Marines. Era il diciotto settembre 1968: Dan aveva poco più di quattordici anni e mezzo.

Lo sbarcarono in Vietnam il diciotto maggio del ’69, una domenica. Venti giorni più tardi, il sette giugno, il Private First Class (soldato di prima classe) Dan Bullock veniva falciato da una raffica di proiettili durante un attacco Viet Cong alla base di An Hoa, provincia di Quang Nam. Aveva quindici anni, cinque mesi e diciassette giorni: la più giovane vittima americana della guerra del Vietnam.


Oggi il suo nome sta scolpito su una lapide al cimitero di Greensboro, North Carolina. E sta scritto su un cartello stradale lungo il Lee Boulevard di Brooklyn, l’odiato domicilio da cui era fuggito per diventare un Marine: gli hanno dedicato un pezzo di quella via. E sta inciso nel nero granito – lastra numero 23W, 96esima riga – del monumento ai caduti del Vietnam, nel centro di Washington, che ufficialmente si chiama Vietnam Veterans Memorial ma qui tutti conoscono semplicemente come
The Wall, Il Muro.

Tutt’intorno a Dan Bullock, sul Muro ci sono i nomi degli altri 58’255 soldati americani morti nella più lunga, sciagurata e tragica campagna militare combattuta nel quadro della cosiddetta Guerra Fredda, in nome del Mondo Libero e degli interessi del governo di Washington. Che dopo aver dilapidato in Indocina 650 miliardi di dollari, nella costruzione del Muro (o meglio: nello scavo del Muro, ma questo si chiarirà più avanti) non ha dovuto investire un solo centesimo. Quel Muro, dapprima criticato, deriso e osteggiato, è poi diventato il più famoso monumento degli Stati Uniti, visitato ogni anno da quasi quattro milioni di persone.





Jan Scruggs – un giovane di Bowie, nel Maryland - in Vietnam c’era stato, caporale nella 199esima brigata di fanteria leggera. Era rimasto ferito – come altri trecentomila suoi commilitoni - era guarito, s’era anche meritato una medaglia al valore, e aveva infine riportato a casa la pelle. Ma nonostante si fosse poi immerso negli studi all’American University di Washington, il Vietnam non gli usciva dalla mente e dalle viscere. Scruggs era convinto che i suoi compagni caduti meritassero comunque un monumento, nonostante quella guerra avesse condotto alla più umiliante sconfitta militare nella storia del paese.

Nel maggio del ’79, visto che sul tema del monumento il Congresso continuava a tacere, Jan Scruggs lanciò una raccolta di fondi per la creazione del Vietnam Veterans Memorial: i primi 2'800 dollari ce li mise lui, di tasca sua. Quasi trecentomila americani risposero al suo appello, e in breve tempo Scruggs racimolò più di otto milioni di dollari. Adesso i soldi c’erano; mancava solo un degno progetto. Nell’ottobre dell’80 venne bandito il concorso.

Maya Ying Lin era nata nel ’59 ad Atene, una cittadina universitaria del profondo Ohio, figlia di una coppia di cinesi fuggiti dalla madrepatria poco prima della rivoluzione comunista del’49 che avrebbe portato al potere il “Grande Timoniere” Mao Tse-Tung. La mamma, poetessa, e il papà, un ceramista, avevano trovato impiego come insegnanti alla locale Ohio University. Maya riuscì invece a farsi ammettere alla facoltà di architettura della prestigiosissima università di Yale – la stessa frequentata dai Bush di ogni generazione.
Durante il suo ultimo anno a Yale, nell’ambito di un seminario dedicato ai monumenti funebri, a Maya Lin venne imposto di partecipare al concorso per il
Vietnam Veterans Memorial.

Maya partorì un progetto umile e rivoluzionario: nessuna figura classica che si elevasse al cielo, niente celebrazioni più o meno velate o esibite, no all’esaltazione del sacrificio umano in nome della Patria, nemmeno una bandiera al vento. Solo uno scavo e un muro: un’enorme ferita nel terreno, di foggia più o meno triangolare, dolce su un versante e delimitata – sui due lati che affondano verticalmente nella terra - da un muro composto da lastre di granito, a sua volta affiancato da un semplice sentiero lungo cui lasciar sfilare, percorrere, leggere, toccare con mano i nomi dei soldati caduti incisi nella pietra. Un muro che non si erge ma sprofonda, un muro che non vuole dividere bensì riunire: i morti con i vivi.




Tra i più di 1'400 schizzi presentati al concorso, inoltrati tutti in forma anonima, la giuria scelse all’unanimità il progetto numero 1026. All’apertura della busta corrispondente, enorme fu la sorpresa quando venne svelata l’identità dell’autrice: Maya Ying Lin, ventun’anni, studentessa. Subito si accesero le polemiche.

Il suo nome suonava troppo asiatico: non sarà per caso una vietnamita? E quel Memorial che pretendeva di affondare nell’erba, nell’umida terra al centro di Washington, non sapeva troppo di disfattismo? E l’assenza della gloriosa bandiera a stelle e strisce irritava, offendeva, profanava il sacrificio dei caduti – sostennero in molti. Un gruppo di reduci propose di buttare tutto a mare e ricominciare da capo. James Watt, l’allora segretario agli interni dell’amministrazione Reagan, si rifiutò di accordare il permesso di costruzione, a causa dell’assenza di elementi o simboli patriottici. Fu necessario arrivare a un compromesso: il Muro di Maya Lin sarebbe stato affiancato, poco distante, da un classico bronzo raffigurante tre soldati e regolare pennone con stelle e strisce al vento.

Pare che il coro di proteste abbia profondamente amareggiato la giovane studentessa di origine cinese. Ma il tempo è a volte galantuomo: in tutti gli Stati Uniti non c’è oggi monumento pubblico più visitato del Muro di Maya Lin. E sono ben pochi quelli che si fermano anche di fronte al bronzo coi tre militi e bandiera…





Albert Peter Dewey non sta scolpito sul Muro di Washington, insieme ai caduti in Vietnam. Eppure morì a Saigon nel lontano settembre del ‘45, ed era un colonnello dell’esercito americano, e faceva addirittura parte dell’OSS (l’Office of Strategic Services, agenzia oggi più comunemente nota come “CIA”). E fu il primo americano ucciso in Vietnam da una pallottola comunista. Eppure…

La storia del pluridecorato maggiore Albert Peter Dewey è singolare e un po’ grottesca, e sembra volerci segnalare che le cose avrebbero forse potuto andare diversamente. Al termine della II Guerra Mondiale Dewey era stato inviato in Vietnam per prendere contatti col Viet Minh, il movimento comunista fondato nel ’41 da Ho Chi Minh per lottare contro l’occupazione giapponese e per conquistare l’indipendenza dalla Francia. In particolare, Dewey aveva il compito di coordinare il rimpatrio di circa duecento soldati americani fatti prigionieri dai giapponesi, impiegati come schiavi nella costruzione del ponte sul fiume Kwai (quello del celebre film) e detenuti a Saigon.

Ma nell’immediato dopoguerra Saigon era teatro di mille intrighi: c’erano i vietnamiti che bramavano l’indipendenza, i francesi ansiosi di reinstallarsi come potenza coloniale, i britannici intenti a tessere le loro trame, gli americani a fare non si sa bene che cosa. E Albert Peter Dewey, dopo aver rispedito a casa gli ex prigionieri americani, cadde vittima di un qui pro quo causato (tragica ironia della sorte) dalla sua raffinata istruzione.
Raccontata in breve, andò così: i suoi contatti coi Viet Minh – che ancora speravano di disfarsi pacificamente dei francesi grazie a negoziati e con l’aiuto degli americani – lo resero sospetto agli occhi del locale comandante britannico, che ne ordinò l’espulsione da Saigon.


Sulla strada verso l’aeroporto, la jeep del maggiore Dewey incappò in un posto di blocco Viet Minh. Contrariato, Dewey – che tra l’altro aveva una laurea in storia della Francia e un passato da giornalista a Parigi – urlò qualcosa in francese all’indirizzo dei miliziani Viet Minh. Questi lo scambiarono per un soldato francese e lo crivellarono di colpi, uccidendolo all’istante.

Seguirono mille scuse e un profondo imbarazzo da parte vietnamita. Ho Chi Minh ordinò ai suoi di scovare e recuperare il cadavere, arrivando persino a offrire un’astronomica ricompensa a chi avesse riportato il corpo di Dewey. Che non fu mai rintracciato.

Ma gli USA non erano in guerra col Vietnam: ecco perché il maggiore Albert Peter Dewey, prima vittima americana di una pallottola comunista in Indocina, non sta scolpito sul Muro di Washington.

Più tardi in Vietnam tornarono i soldati francesi (quelli veri).
Poi arrivarono altri americani, inviati dal presidente Truman in aiuto ai francesi sotto l’etichetta di “assistenti e consiglieri militari”, con la precisazione che non si trattava di truppe da combattimento. Ma le distinzioni sono labili, i confini opachi, la verità sfuggente. Le cose si complicarono quando i francesi vennero sconfitti a Dien Bien Phu e fecero i bagagli. Gli americani restarono. Come semplici “consiglieri militari”, almeno in teoria, almeno per i primi tempi.

Ed è così che nacque il problema tipico dei conflitti striscianti, quelli combattuti senza dichiararlo apertamente - un grattacapo per chi deve scrivere la Grande Storia, ma anche per chi è alle prese con le tante piccole storie individuali che stanno dietro ai nomi del Muro di Washington. Perché sul monumento ai caduti della guerra del Vietnam hanno diritto di figurare, come ovvio, i caduti di quel conflitto. Ma chi è la prima vittima “ufficiale”? Quando iniziò “ufficialmente” la guerra americana in Vietnam?

Il Pentagono fissa una data: il primo gennaio 1961. Ora, deposti i fucili e spento il napalm, si può accendere la battaglia delle scartoffie.




Richard Bernard Fitzgibbon Jr., sergente dell’aviazione USA, finì scolpito nel Muro – lastra 52E, 21esima riga - solo nel ’99, diciassette anni dopo l’inaugurazione del Vietnam Veterans Memorial. E solo dopo che il Pentagono ebbe corretto e riscritto la Storia, e spostato al 1° novembre del ‘55 l’inizio “ufficiale” dell’impegno bellico statunitense in Vietnam, facendo di Richard Bernard Fitzgibbon il primo caduto americano del conflitto – o almeno: così ha deciso la burocrazia.

E se morire in guerra, comunque la si veda, è sempre un po’ assurdo, la fine di Richard Fitzgibbon Jr. è tragicamente grottesca. Ad ammazzarlo - una sera di giugno del ’56, appena tramontato il sole di Saigon – non fu un “Charlie”, un vietnamita comunista, bensì cinque pallottole americane sparategli dopo un alterco da un suo commilitone impazzito.

E se ora qualcuno dovesse pensare che all’anima del defunto sergente Fitzgibbon in fondo non gliene fregava niente dell’iscrizione sul Muro, basta un dettaglio a far cambiare idea, perché sul granito del Memorial papà Fitzgibbon ha potuto riunirsi con suo figlio
Richard Fitzgibbon III, caporale dei Marines, ucciso in Vietnam nel settembre del ’65 e scolpito nel granito alla 77esima riga della lastra 2E del Muro di Washington.




Così come è successo a Leo Claude Hester e a suo figlio Leo Claude Hester Jr., che hanno condiviso lo stesso nome, lo stesso corpo (l’aviazione) e lo stesso destino: deceduti entrambi in Vietnam nello schianto dei rispettivi velivoli. Prima il padre e dopo il figlio, per fortuna.

Penso a mamma Nixon, una donna di Mulberry nell’Arkansas, della quale non conosco il nome ma immagino la nera disperazione quando il messo dell’esercito andò a comunicarle la morte di suo figlio
Samuel Ray Nixon (ucciso il 21 marzo) e tornò pochi giorni dopo per annunciarle la perdita di un secondo figlio, William Dale Nixon (morto l’otto maggio).
Era il 1968, lo stesso anno in cui un altro Nixon (Richard) riusciva a farsi eleggere alla Casa Bianca.
Oltre a Samuel e William, sul Muro ci sono iscritti i nomi di altri otto Nixon caduti in Vietnam. Tutti sanno quale fine toccò invece al Nixon presidente: costretto a dimettersi in seguito allo scandalo del Watergate, ma poi subito perdonato dal suo successore.


Per il pluridecorato sergente
Jacob Dan “J.J.” Dones la guerra del Vietnam era solo un capitolo di storia da studiare sui banchi di scuola. E poi durante l’addestramento militare.
Dones era nato il 5 marzo dell’84 a Dimmitt, nel Texas.
Appena diplomatosi alla locale High School, nel 2002 si era arruolato nell’esercito. Forse per convinzione, forse per avventura o per necessità, o forse perché fare il padre, a quell’età, era troppo difficile - J.J. Dones aveva già una figlia. Più tardi sua sorella Priscilla lo aveva imitato, ma invece dell’esercito lei aveva scelto i marines: tra i due erano nate rivalità a non finire.

Il venti ottobre del 2005 J.J. Dones è morto in Irak, colpito durante un attacco alla sua base. Se mai un giorno dovessero erigere un altro Muro anche per quest’ultima folle guerra, con sopra tutti i caduti scolpiti o in rilievo, andrei a cercare il sergente Dones: un nome ci accomuna. Per ora gli hanno dedicato l’ufficio postale di Dimmitt, Texas. Popolazione: 4'375.

(© VASCO DONES; 

pubblicato sul settimanale svizzero AZIONE nell'estate 2007)

domenica 4 ottobre 2009

Quel ramo del lago di Como


Una modesta proposta tra il serio e il faceto: con l’euro alle stelle e il dollaro in cantina, perché non pensare a una vacanza negli USA? Se ritenete, per esempio, che Roma o Parigi costino troppo, potreste pianificare una capatina nello stato dell’Ohio: ci trovereste sei località chiamate Roma, una Nuova Roma, due Parigi, una Nuova Parigi, una Vienna, una Nuova Vienna, due Berlino e una Berlino Ovest – tutte a costo moderato. Basta non pretendere il Colosseo o la torre Eiffel (quella, come noto, sta a Las Vegas).

Agli eventuali leghisti e simpatizzanti padani è anche offerta l’occasione dell’agognata rivincita: Parma (Ohio) è più grande e più importante di tutte le Rome dello stesso stato. E per i brevi istanti di acuta nostalgia c’è sempre Nuovaberna (proprio così, tutto attaccato: Newbern, Ohio). Ormai, grazie al regista tedesco Wim Wenders, quasi tutti sanno che Parigi è in Texas – ma è anche nel Kentucky, nell’Iowa, nell’Idaho e in una dozzina di altri stati dell’Unione. Come d’altronde Roma, Vienna e Berlino (a proposito: negli Stati Uniti resistono tenacemente, in barba alla caduta del Muro, almeno cinque reincarnazioni di Berlino Est, di cui due nella sola Pennsylvania - ma sarebbe ovviamente errato leggervi rimpianti per la defunta Germania comunista).



(Cuba, New Mexico)

L’apice dello spasso lo si raggiunge però andando alla ricerca del lago di Como, con o senza ramo rivolto a mezzogiorno. Il primo lo scoviamo in Pennsylvania, ma non è un lago bensì un villaggetto di duecento anime affogato tra verdi colline. Una creatura analoga, minuscola e improbabile, sta nel profondo Sud: Lake Como, Mississippi (niente lago, due stagni a mezzo chilometro), accompagnata dalla più consistente Como, Mississippi: milletrecento abitanti, un quarto bianchi e tre quarti neri (ma per favore li si chiami “afro-americani”). Poi c’è il Lario sul grande mare: Lake Como, New Jersey, ridente località affacciata sull’Atlantico con omonima pozza d’acqua dolce a cinquanta metri dall’oceano. E infine – meraviglioso capolavoro d’intesa italo-elvetica – ecco spuntare Lake Como, Wisconsin (cittadina e lago annesso condividono il nome), a solo mezzo miglio da Ginevra e rispettivo specchio d’acqua: Lake Geneva, Wisconsin. Punge vaghezza d’interpellare lo spirito del Manzoni per sentire che ne pensa di quest’ardito accostamento con la città di Calvino…


Ma per quale ragione – cara lettrice, caro lettore – ti racconto tutte queste corbellerie? Per ricordare obliquamente che l’America, giovane figlia del tuo continente, non ti può offrire gli splendori di quel Vecchio Mondo che ha voluto lasciarsi alle spalle, portandosi appresso le etichette nella speranza di rifarne i contenuti. Meraviglie della natura sì, a volontà. Ma niente Acropoli, Pompei, terme di Caracalla, castelli della Loira, palazzi di Versailles (disseminate tra il Connecticut e il Missouri ci sono nove Versailles, ma temo sia meglio lasciar perdere).



(Monument Valley, Arizona)


Vista da qui, dalla pasticciata suburbia di Washington che ospita il tuo umile cronista, l’Europa appare come un enorme e strabiliante museo abitato, di una bellezza quasi oscena, sicuramente provocatoria - da scoprire, gustare e assaporare in ogni angolo con lo stesso spirito con cui si va, appunto, al museo. Ma gli Stati Uniti sono ben altra cosa, soprattutto per il turista. Le grandi città degne d’interesse, attraenti, stuzzicanti e godibili, sono in fondo ben poche: New York, Boston, il centro di Washington, il quartiere francese della martoriata New Orleans, i grattacieli di Chicago, l’impareggiabile San Francisco (qualcuno suggerisce d’aggiungervi Seattle). Le altre sono suppergiù tutte uguali, schematiche, prevedibili, non appagano, non gratificano l’occhio (se insisti, eccoti un paio di perle meno note: Charleston nella Carolina del sud e Savannah in Georgia). L’America, terra dal passato intenso ma brevissimo, non ha – e non può avere - le qualità museali dell’Europa, il suo sfacciato splendore, il suo fascino immediato.



(Offerle, Kansas)

L’America sfoggia un patrimonio naturale grandioso e impressionante, certo, ma la vera bellezza del paese va colta nel suo spirito, nei suoi sogni emigrati fin qui dall’Europa e più tardi da ogni angolo del pianeta, nella sua storia fatta di grandi aneliti, grandi errori, grandi conquiste, e piccole reliquie poco appariscenti. Solo così è possibile digerire, e magari persino apprezzare, le volgari arterie commerciali, i neon rutilanti, le pance obese esibite al barbecue del sabato pomeriggio, i quartieri in falso stile colonial-neo-tradizionale che sembrano usciti dall’irresistibile Truman Show. Andare a zonzo per l’America significa visitare un’idea più che un territorio; significa fare il turista in un grande progetto, un immenso e disordinato laboratorio, spesso francamente bruttino: meglio saperlo in partenza.

Ma se il quattro luglio tu dovessi per caso ritrovarti nella decaduta e impoverita Filadelfia, città della Dichiarazione d’Indipendenza e prima capitale dell’Unione, siediti sul bordo del marciapiede e assisti al corteo: davanti ai tuoi occhi vedrai sfilare rappresentanti di tutti i popoli del mondo, accomunati sotto la stessa bandiera non in nome di un’etnia, di una religione o di una lingua, ma in virtù di un progetto. Nata sul genocidio della popolazione pellerossa e marchiata dal terribile peccato dello schiavismo, l’America di oggi è comunque questa, piaccia o non piaccia: un’idea che arranca a fatica, più volte tradita e sempre rilanciata, un po’ confusa e impaurita, ma che per fortuna non ha ancora gettato la spugna.

Spero.

(© VASCO DONES; 

pubblicato sul settimanale svizzero AZIONE nell'estate 2007)



(Washington, DC, 20 gennaio 2009:
Inauguration Day)



venerdì 2 ottobre 2009

Due passi in centro (e un caffè)



“Andiamo a fare due passi?” proposi un giorno di vent’anni fa a Tom, un amico americano. Era una splendida giornata di sole, rallegrata da una piacevole brezza. Tom rispose: “E perché mai?” L’aneddoto m’è tornato in mente l’altro giorno, quando il postino mi ha recapitato una cartolina pubblicitaria di “Rockville Town Square”, l’iniziativa che fra pochi mesi regalerà a noi cittadini di Rockville – periferia di Washington, stato del Maryland – un bene prezioso: downtown, il centro città. Che sarà, informa la cartolina, “un ambiente urbano con ristoranti e caffè attorno alla piazza cittadina”, ma soprattutto sarà walkable, cioè percorribile a piedi. Insomma: si potrà fare due passi in piazza e bersi un caffè (inaugurazione in primavera).







Orbene, Rockville non è uno scherzo: ha 57'000 abitanti (centomila con gli agglomerati circostanti), è capoluogo di una ricca contea da quasi un milione d’anime, vanta parecchie aziende di punta, soprattutto nel campo delle biotecnologie. Ha un paio di stazioni di un metrò bello e pulito che in mezz’ora ti scarica nel cuore di Washington. Ha la Rockville Pike, versione locale e originale della Grancia-Noranco ma con sei corsie, molto più lunga e con molti più negozi. Possiede anche una chicca culturale: la tomba del celeberrimo scrittore Francis Scott Fitzgerald e di sua moglie Zelda. Ma niente centro cittadino. Nulla. Il vuoto pneumatico.

Quando sbarcai per la prima volta a Rockville, due anni fa, da buon europeo andai a cercare il centro. Trovai – di fronte a un cinema multisala da tredici schermi con annesso parcheggio – un secondo enorme parcheggio, ma vuoto, circondato da una teoria di negozi abbandonati, il tutto cintato da rete metallica. E un buon numero di vezzosi cartelli che proclamavano solennemente “Town Center”. Chi aveva bombardato Rockville?

Semplice: negli anni ’60 e ‘70 era passato di qua (come in altre ottocento città d’America) l’urban renewal, il “rinnovamento urbano”, che in nome dell’ordine, della pulizia, dello snellimento del traffico e della centralità dell’automobile aveva raso al suolo gli edifici esistenti (del tipo “ad uso misto”, come dicono qui: casette con sotto il negozio, sopra l’abitazione del proprietario; nel Vecchio Mondo una cosa normalissima, in quello Nuovo una bestemmia) per fare spazio ad arterie più ampie, abbondanti parcheggi e uffici a profusione. E a un enorme mall, un ipermercato coperto.

Fu un disastro: il più grande emporio dell'ipermercato fallì dopo sei mesi, trascinando nella rovina tutti gli altri e nell’oblio l’intero centro cittadino. Nel ’93 Doug Duncan, allora sindaco di Rockville, si sfogò sul Washington Post: “quando attraverso a piedi il centro della nostra città, mi coglie un senso di disperazione.” E propose di abbattere il complesso dell'ipermercato, che venne demolito poco tempo dopo (qui si fa così: ci provi e vedi come va; se non ti garba, radi al suolo e ricominci). Risultato: un deserto urbano nel cuore della città. Ancora oggi, a Washington, la confessione d’abitare a Rockville viene accolta da un sorrisetto ironico: “Poveraccio, che jella…”




Poi venne appunto varato il Progetto del Grande Rilancio: trecentocinquanta milioni di dollari per spalmare su cinque ettari di terreno bar e ristoranti, negozi e boutique, 650 appartamenti e una piazza. E Roger Lewis, uno dei progettisti del complesso e docente di architettura all’università del Maryland, ha di recente schizzato sul Washington Post ardite analogie tra l’edificando centro e il cuore di Roma: “Rockville Town Square ha il potenziale per diventare una destinazione vivace e animata, un po’ come Campo dei Fiori”, preannunciando che sarà “uno spazio urbano speciale, dal carattere più europeo che americano” (ok, va bene, ci contiamo, ma per favore dimentichiamoci l’Urbe).

E adesso aspettiamo tutti la primavera, che ci riporterà la piazza del villaggio. E pure walkable, “passeggiabile”, ché nel frattempo gli americani hanno scoperto il piacere di sgranchirsi le gambe. E di bersi un caffè come Dio comanda, servito non nell’orribile bicchiere di carta, ma nella classica tazzina in ceramica. Da Starbucks, in piazza: basterà ordinarlo esplicitando for here, cioè “da bersi qui”, così il barista capisce che deve rapidamente scovare le uniche due-dicasi-due tazzine in dotazione al bar.

Nel frattempo, nell’attesa, continuo a camminare per le vie del mio quartiere, bello e accogliente come quelli dei film, con le casette e i 4x4 parcheggiati sui vialetti e i prati verdissimi e i mille colori degli alberi d’autunno. Ma senza l’ombra d’un caffè.

(© VASCO DONES; 

pubblicato sul settimanale svizzero AZIONE nel 2006)