venerdì 2 ottobre 2009

Due passi in centro (e un caffè)



“Andiamo a fare due passi?” proposi un giorno di vent’anni fa a Tom, un amico americano. Era una splendida giornata di sole, rallegrata da una piacevole brezza. Tom rispose: “E perché mai?” L’aneddoto m’è tornato in mente l’altro giorno, quando il postino mi ha recapitato una cartolina pubblicitaria di “Rockville Town Square”, l’iniziativa che fra pochi mesi regalerà a noi cittadini di Rockville – periferia di Washington, stato del Maryland – un bene prezioso: downtown, il centro città. Che sarà, informa la cartolina, “un ambiente urbano con ristoranti e caffè attorno alla piazza cittadina”, ma soprattutto sarà walkable, cioè percorribile a piedi. Insomma: si potrà fare due passi in piazza e bersi un caffè (inaugurazione in primavera).







Orbene, Rockville non è uno scherzo: ha 57'000 abitanti (centomila con gli agglomerati circostanti), è capoluogo di una ricca contea da quasi un milione d’anime, vanta parecchie aziende di punta, soprattutto nel campo delle biotecnologie. Ha un paio di stazioni di un metrò bello e pulito che in mezz’ora ti scarica nel cuore di Washington. Ha la Rockville Pike, versione locale e originale della Grancia-Noranco ma con sei corsie, molto più lunga e con molti più negozi. Possiede anche una chicca culturale: la tomba del celeberrimo scrittore Francis Scott Fitzgerald e di sua moglie Zelda. Ma niente centro cittadino. Nulla. Il vuoto pneumatico.

Quando sbarcai per la prima volta a Rockville, due anni fa, da buon europeo andai a cercare il centro. Trovai – di fronte a un cinema multisala da tredici schermi con annesso parcheggio – un secondo enorme parcheggio, ma vuoto, circondato da una teoria di negozi abbandonati, il tutto cintato da rete metallica. E un buon numero di vezzosi cartelli che proclamavano solennemente “Town Center”. Chi aveva bombardato Rockville?

Semplice: negli anni ’60 e ‘70 era passato di qua (come in altre ottocento città d’America) l’urban renewal, il “rinnovamento urbano”, che in nome dell’ordine, della pulizia, dello snellimento del traffico e della centralità dell’automobile aveva raso al suolo gli edifici esistenti (del tipo “ad uso misto”, come dicono qui: casette con sotto il negozio, sopra l’abitazione del proprietario; nel Vecchio Mondo una cosa normalissima, in quello Nuovo una bestemmia) per fare spazio ad arterie più ampie, abbondanti parcheggi e uffici a profusione. E a un enorme mall, un ipermercato coperto.

Fu un disastro: il più grande emporio dell'ipermercato fallì dopo sei mesi, trascinando nella rovina tutti gli altri e nell’oblio l’intero centro cittadino. Nel ’93 Doug Duncan, allora sindaco di Rockville, si sfogò sul Washington Post: “quando attraverso a piedi il centro della nostra città, mi coglie un senso di disperazione.” E propose di abbattere il complesso dell'ipermercato, che venne demolito poco tempo dopo (qui si fa così: ci provi e vedi come va; se non ti garba, radi al suolo e ricominci). Risultato: un deserto urbano nel cuore della città. Ancora oggi, a Washington, la confessione d’abitare a Rockville viene accolta da un sorrisetto ironico: “Poveraccio, che jella…”




Poi venne appunto varato il Progetto del Grande Rilancio: trecentocinquanta milioni di dollari per spalmare su cinque ettari di terreno bar e ristoranti, negozi e boutique, 650 appartamenti e una piazza. E Roger Lewis, uno dei progettisti del complesso e docente di architettura all’università del Maryland, ha di recente schizzato sul Washington Post ardite analogie tra l’edificando centro e il cuore di Roma: “Rockville Town Square ha il potenziale per diventare una destinazione vivace e animata, un po’ come Campo dei Fiori”, preannunciando che sarà “uno spazio urbano speciale, dal carattere più europeo che americano” (ok, va bene, ci contiamo, ma per favore dimentichiamoci l’Urbe).

E adesso aspettiamo tutti la primavera, che ci riporterà la piazza del villaggio. E pure walkable, “passeggiabile”, ché nel frattempo gli americani hanno scoperto il piacere di sgranchirsi le gambe. E di bersi un caffè come Dio comanda, servito non nell’orribile bicchiere di carta, ma nella classica tazzina in ceramica. Da Starbucks, in piazza: basterà ordinarlo esplicitando for here, cioè “da bersi qui”, così il barista capisce che deve rapidamente scovare le uniche due-dicasi-due tazzine in dotazione al bar.

Nel frattempo, nell’attesa, continuo a camminare per le vie del mio quartiere, bello e accogliente come quelli dei film, con le casette e i 4x4 parcheggiati sui vialetti e i prati verdissimi e i mille colori degli alberi d’autunno. Ma senza l’ombra d’un caffè.

(© VASCO DONES; 

pubblicato sul settimanale svizzero AZIONE nel 2006)

1 commento:

dario celli ha detto...

Sorrido...
E rileggo tutto da capo...


d.