lunedì 5 ottobre 2009

Storie dal Muro di Washington


Il Muro di Berlino. Il Muro del pianto. Il Muro della vergogna (ce ne sono tanti: l’ultimo l’hanno tirato su in Israele). La Grande Muraglia cinese… Anche Washington ha il suo muro con la emme maiuscola. E quelle che seguono sono alcune storie dal Muro di Washington.





Dan Bullock era un bambino nero di Goldsboro, nella Carolina del nord. Si dice che fosse un ragazzino tranquillo. A undici anni perse la madre. Papà si risposò e portò Dan e sua sorellina a vivere su al nord, a Brooklyn, New York, al 279 di Lee Avenue. Al giovanissimo Dan la metropoli non piaceva. Tenne duro per un po’, poi un giorno falsificò la data sul suo certificato di nascita e riuscì ad arruolarsi nei Marines. Era il diciotto settembre 1968: Dan aveva poco più di quattordici anni e mezzo.

Lo sbarcarono in Vietnam il diciotto maggio del ’69, una domenica. Venti giorni più tardi, il sette giugno, il Private First Class (soldato di prima classe) Dan Bullock veniva falciato da una raffica di proiettili durante un attacco Viet Cong alla base di An Hoa, provincia di Quang Nam. Aveva quindici anni, cinque mesi e diciassette giorni: la più giovane vittima americana della guerra del Vietnam.


Oggi il suo nome sta scolpito su una lapide al cimitero di Greensboro, North Carolina. E sta scritto su un cartello stradale lungo il Lee Boulevard di Brooklyn, l’odiato domicilio da cui era fuggito per diventare un Marine: gli hanno dedicato un pezzo di quella via. E sta inciso nel nero granito – lastra numero 23W, 96esima riga – del monumento ai caduti del Vietnam, nel centro di Washington, che ufficialmente si chiama Vietnam Veterans Memorial ma qui tutti conoscono semplicemente come
The Wall, Il Muro.

Tutt’intorno a Dan Bullock, sul Muro ci sono i nomi degli altri 58’255 soldati americani morti nella più lunga, sciagurata e tragica campagna militare combattuta nel quadro della cosiddetta Guerra Fredda, in nome del Mondo Libero e degli interessi del governo di Washington. Che dopo aver dilapidato in Indocina 650 miliardi di dollari, nella costruzione del Muro (o meglio: nello scavo del Muro, ma questo si chiarirà più avanti) non ha dovuto investire un solo centesimo. Quel Muro, dapprima criticato, deriso e osteggiato, è poi diventato il più famoso monumento degli Stati Uniti, visitato ogni anno da quasi quattro milioni di persone.





Jan Scruggs – un giovane di Bowie, nel Maryland - in Vietnam c’era stato, caporale nella 199esima brigata di fanteria leggera. Era rimasto ferito – come altri trecentomila suoi commilitoni - era guarito, s’era anche meritato una medaglia al valore, e aveva infine riportato a casa la pelle. Ma nonostante si fosse poi immerso negli studi all’American University di Washington, il Vietnam non gli usciva dalla mente e dalle viscere. Scruggs era convinto che i suoi compagni caduti meritassero comunque un monumento, nonostante quella guerra avesse condotto alla più umiliante sconfitta militare nella storia del paese.

Nel maggio del ’79, visto che sul tema del monumento il Congresso continuava a tacere, Jan Scruggs lanciò una raccolta di fondi per la creazione del Vietnam Veterans Memorial: i primi 2'800 dollari ce li mise lui, di tasca sua. Quasi trecentomila americani risposero al suo appello, e in breve tempo Scruggs racimolò più di otto milioni di dollari. Adesso i soldi c’erano; mancava solo un degno progetto. Nell’ottobre dell’80 venne bandito il concorso.

Maya Ying Lin era nata nel ’59 ad Atene, una cittadina universitaria del profondo Ohio, figlia di una coppia di cinesi fuggiti dalla madrepatria poco prima della rivoluzione comunista del’49 che avrebbe portato al potere il “Grande Timoniere” Mao Tse-Tung. La mamma, poetessa, e il papà, un ceramista, avevano trovato impiego come insegnanti alla locale Ohio University. Maya riuscì invece a farsi ammettere alla facoltà di architettura della prestigiosissima università di Yale – la stessa frequentata dai Bush di ogni generazione.
Durante il suo ultimo anno a Yale, nell’ambito di un seminario dedicato ai monumenti funebri, a Maya Lin venne imposto di partecipare al concorso per il
Vietnam Veterans Memorial.

Maya partorì un progetto umile e rivoluzionario: nessuna figura classica che si elevasse al cielo, niente celebrazioni più o meno velate o esibite, no all’esaltazione del sacrificio umano in nome della Patria, nemmeno una bandiera al vento. Solo uno scavo e un muro: un’enorme ferita nel terreno, di foggia più o meno triangolare, dolce su un versante e delimitata – sui due lati che affondano verticalmente nella terra - da un muro composto da lastre di granito, a sua volta affiancato da un semplice sentiero lungo cui lasciar sfilare, percorrere, leggere, toccare con mano i nomi dei soldati caduti incisi nella pietra. Un muro che non si erge ma sprofonda, un muro che non vuole dividere bensì riunire: i morti con i vivi.




Tra i più di 1'400 schizzi presentati al concorso, inoltrati tutti in forma anonima, la giuria scelse all’unanimità il progetto numero 1026. All’apertura della busta corrispondente, enorme fu la sorpresa quando venne svelata l’identità dell’autrice: Maya Ying Lin, ventun’anni, studentessa. Subito si accesero le polemiche.

Il suo nome suonava troppo asiatico: non sarà per caso una vietnamita? E quel Memorial che pretendeva di affondare nell’erba, nell’umida terra al centro di Washington, non sapeva troppo di disfattismo? E l’assenza della gloriosa bandiera a stelle e strisce irritava, offendeva, profanava il sacrificio dei caduti – sostennero in molti. Un gruppo di reduci propose di buttare tutto a mare e ricominciare da capo. James Watt, l’allora segretario agli interni dell’amministrazione Reagan, si rifiutò di accordare il permesso di costruzione, a causa dell’assenza di elementi o simboli patriottici. Fu necessario arrivare a un compromesso: il Muro di Maya Lin sarebbe stato affiancato, poco distante, da un classico bronzo raffigurante tre soldati e regolare pennone con stelle e strisce al vento.

Pare che il coro di proteste abbia profondamente amareggiato la giovane studentessa di origine cinese. Ma il tempo è a volte galantuomo: in tutti gli Stati Uniti non c’è oggi monumento pubblico più visitato del Muro di Maya Lin. E sono ben pochi quelli che si fermano anche di fronte al bronzo coi tre militi e bandiera…





Albert Peter Dewey non sta scolpito sul Muro di Washington, insieme ai caduti in Vietnam. Eppure morì a Saigon nel lontano settembre del ‘45, ed era un colonnello dell’esercito americano, e faceva addirittura parte dell’OSS (l’Office of Strategic Services, agenzia oggi più comunemente nota come “CIA”). E fu il primo americano ucciso in Vietnam da una pallottola comunista. Eppure…

La storia del pluridecorato maggiore Albert Peter Dewey è singolare e un po’ grottesca, e sembra volerci segnalare che le cose avrebbero forse potuto andare diversamente. Al termine della II Guerra Mondiale Dewey era stato inviato in Vietnam per prendere contatti col Viet Minh, il movimento comunista fondato nel ’41 da Ho Chi Minh per lottare contro l’occupazione giapponese e per conquistare l’indipendenza dalla Francia. In particolare, Dewey aveva il compito di coordinare il rimpatrio di circa duecento soldati americani fatti prigionieri dai giapponesi, impiegati come schiavi nella costruzione del ponte sul fiume Kwai (quello del celebre film) e detenuti a Saigon.

Ma nell’immediato dopoguerra Saigon era teatro di mille intrighi: c’erano i vietnamiti che bramavano l’indipendenza, i francesi ansiosi di reinstallarsi come potenza coloniale, i britannici intenti a tessere le loro trame, gli americani a fare non si sa bene che cosa. E Albert Peter Dewey, dopo aver rispedito a casa gli ex prigionieri americani, cadde vittima di un qui pro quo causato (tragica ironia della sorte) dalla sua raffinata istruzione.
Raccontata in breve, andò così: i suoi contatti coi Viet Minh – che ancora speravano di disfarsi pacificamente dei francesi grazie a negoziati e con l’aiuto degli americani – lo resero sospetto agli occhi del locale comandante britannico, che ne ordinò l’espulsione da Saigon.


Sulla strada verso l’aeroporto, la jeep del maggiore Dewey incappò in un posto di blocco Viet Minh. Contrariato, Dewey – che tra l’altro aveva una laurea in storia della Francia e un passato da giornalista a Parigi – urlò qualcosa in francese all’indirizzo dei miliziani Viet Minh. Questi lo scambiarono per un soldato francese e lo crivellarono di colpi, uccidendolo all’istante.

Seguirono mille scuse e un profondo imbarazzo da parte vietnamita. Ho Chi Minh ordinò ai suoi di scovare e recuperare il cadavere, arrivando persino a offrire un’astronomica ricompensa a chi avesse riportato il corpo di Dewey. Che non fu mai rintracciato.

Ma gli USA non erano in guerra col Vietnam: ecco perché il maggiore Albert Peter Dewey, prima vittima americana di una pallottola comunista in Indocina, non sta scolpito sul Muro di Washington.

Più tardi in Vietnam tornarono i soldati francesi (quelli veri).
Poi arrivarono altri americani, inviati dal presidente Truman in aiuto ai francesi sotto l’etichetta di “assistenti e consiglieri militari”, con la precisazione che non si trattava di truppe da combattimento. Ma le distinzioni sono labili, i confini opachi, la verità sfuggente. Le cose si complicarono quando i francesi vennero sconfitti a Dien Bien Phu e fecero i bagagli. Gli americani restarono. Come semplici “consiglieri militari”, almeno in teoria, almeno per i primi tempi.

Ed è così che nacque il problema tipico dei conflitti striscianti, quelli combattuti senza dichiararlo apertamente - un grattacapo per chi deve scrivere la Grande Storia, ma anche per chi è alle prese con le tante piccole storie individuali che stanno dietro ai nomi del Muro di Washington. Perché sul monumento ai caduti della guerra del Vietnam hanno diritto di figurare, come ovvio, i caduti di quel conflitto. Ma chi è la prima vittima “ufficiale”? Quando iniziò “ufficialmente” la guerra americana in Vietnam?

Il Pentagono fissa una data: il primo gennaio 1961. Ora, deposti i fucili e spento il napalm, si può accendere la battaglia delle scartoffie.




Richard Bernard Fitzgibbon Jr., sergente dell’aviazione USA, finì scolpito nel Muro – lastra 52E, 21esima riga - solo nel ’99, diciassette anni dopo l’inaugurazione del Vietnam Veterans Memorial. E solo dopo che il Pentagono ebbe corretto e riscritto la Storia, e spostato al 1° novembre del ‘55 l’inizio “ufficiale” dell’impegno bellico statunitense in Vietnam, facendo di Richard Bernard Fitzgibbon il primo caduto americano del conflitto – o almeno: così ha deciso la burocrazia.

E se morire in guerra, comunque la si veda, è sempre un po’ assurdo, la fine di Richard Fitzgibbon Jr. è tragicamente grottesca. Ad ammazzarlo - una sera di giugno del ’56, appena tramontato il sole di Saigon – non fu un “Charlie”, un vietnamita comunista, bensì cinque pallottole americane sparategli dopo un alterco da un suo commilitone impazzito.

E se ora qualcuno dovesse pensare che all’anima del defunto sergente Fitzgibbon in fondo non gliene fregava niente dell’iscrizione sul Muro, basta un dettaglio a far cambiare idea, perché sul granito del Memorial papà Fitzgibbon ha potuto riunirsi con suo figlio
Richard Fitzgibbon III, caporale dei Marines, ucciso in Vietnam nel settembre del ’65 e scolpito nel granito alla 77esima riga della lastra 2E del Muro di Washington.




Così come è successo a Leo Claude Hester e a suo figlio Leo Claude Hester Jr., che hanno condiviso lo stesso nome, lo stesso corpo (l’aviazione) e lo stesso destino: deceduti entrambi in Vietnam nello schianto dei rispettivi velivoli. Prima il padre e dopo il figlio, per fortuna.

Penso a mamma Nixon, una donna di Mulberry nell’Arkansas, della quale non conosco il nome ma immagino la nera disperazione quando il messo dell’esercito andò a comunicarle la morte di suo figlio
Samuel Ray Nixon (ucciso il 21 marzo) e tornò pochi giorni dopo per annunciarle la perdita di un secondo figlio, William Dale Nixon (morto l’otto maggio).
Era il 1968, lo stesso anno in cui un altro Nixon (Richard) riusciva a farsi eleggere alla Casa Bianca.
Oltre a Samuel e William, sul Muro ci sono iscritti i nomi di altri otto Nixon caduti in Vietnam. Tutti sanno quale fine toccò invece al Nixon presidente: costretto a dimettersi in seguito allo scandalo del Watergate, ma poi subito perdonato dal suo successore.


Per il pluridecorato sergente
Jacob Dan “J.J.” Dones la guerra del Vietnam era solo un capitolo di storia da studiare sui banchi di scuola. E poi durante l’addestramento militare.
Dones era nato il 5 marzo dell’84 a Dimmitt, nel Texas.
Appena diplomatosi alla locale High School, nel 2002 si era arruolato nell’esercito. Forse per convinzione, forse per avventura o per necessità, o forse perché fare il padre, a quell’età, era troppo difficile - J.J. Dones aveva già una figlia. Più tardi sua sorella Priscilla lo aveva imitato, ma invece dell’esercito lei aveva scelto i marines: tra i due erano nate rivalità a non finire.

Il venti ottobre del 2005 J.J. Dones è morto in Irak, colpito durante un attacco alla sua base. Se mai un giorno dovessero erigere un altro Muro anche per quest’ultima folle guerra, con sopra tutti i caduti scolpiti o in rilievo, andrei a cercare il sergente Dones: un nome ci accomuna. Per ora gli hanno dedicato l’ufficio postale di Dimmitt, Texas. Popolazione: 4'375.

(© VASCO DONES; 

pubblicato sul settimanale svizzero AZIONE nell'estate 2007)

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